domenica 4 maggio 2008

7.000 € IN MENO NELLA BUSTA PAGA


Un lettore mi ha offerto lo spunto per un post, chiedendomi un'opinione su questo articolo pubblicato da Repubblica.
Il tema è molto impegnativo, ma cercherò se possibile di non deluderlo.
Dunque, la BRI (Banca dei Regolamenti Internazionali) evidenzia come nel corso degli anni la quota di ricchezza nazionale redistribuita in salari e stipendi si sia sensibilmente ridotta a favore dei profitti.
Sono stati persi in 20 anni 8 punti percentuali, che rappresentano, nella pratica, 7.000 euro in meno nelle buste paga.
"(...) Una cifra enorme, uno scivolamento tettonico. Per capirci, l'8 per cento del Pil di oggi è uguale a 120 miliardi di euro. Se i rapporti di forza fra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent'anni fa, quei soldi sarebbero nelle tasche dei lavoratori, invece che dei capitalisti. Per i 23 milioni di lavoratori italiani, vorrebbero dire 5 mila 200 euro, in più, in media, all'anno, se consideriamo anche gli autonomi (professionisti, commercianti, artigiani) che, in realtà, stanno un po' di qui, un po' di là. Se consideriamo solo i 17 milioni di dipendenti, vuol dire 7 mila euro tonde in più, in busta paga.(...)"
Per una volta il fenomeno non è tipicamente italiano ma coinvolge tutto il mondo occidentale, sino al Giappone.
Così posta la questione è persino banale, i falchi hanno divorato le colombe.
Ma probabilmente il dato nudo e crudo si dimostrerà fuorviante se scopriremo, come credo, che la ricchezza prodotta dopo oltre vent'anni è enormemente cresciuta (al contrario delle popolazioni), anche se a favore di una economia diversa da quella che storicamente definiremo industriale.
Lo stesso articolo accenna all'impatto dello sviluppo tecnologico nell'economia:
"(...) Il meccanismo in funzione, secondo lo studio, è un altro: il progresso tecnologico accelera il ricambio di macchinari, tecniche, organizzazioni, che scavalca sempre più facilmente i lavoratori e le loro competenze, riducendone la forza contrattuale.(...)".
Le macchine sostituiscono gli operai, come in "Tempi moderni" di Chaplin, ma gli imprenditori non sono comunque in grado di fare da soli, ne mai (credo), lo saranno.
La ricchezza complessiva è quindi ormai realizzata anche da attori che riducono a semplice margine l'apporto della componente a reddito salariato o stipendiato, oppure che non lo prevedono per niente.
La grande crescita dei profitti, per lo più di natura economico-finanziaria, rappresenta però un tale ordine di grandezza da apparire comunque sintomatico di una contraddizione.
La ricchezza si allontana dai luoghi dove si produce.
Forse, ed in questo senso vale la pena di riflettere, l'apertura della forbice tra Pil, profitti e stipendi, potrebbe trovare un importante temperamento in una diversa partecipazione alla distribuzione della ricchezza prodotta nelle aziende.
Non parlo degli anacronistici premi-produzione, talmente ingessati ai bilanci da diventare inutili, ma dell'intraprendenza utile del lavoratore, che produce benefici ed aumenta la resa economica dell'attività cui partecipa, e che andrebbe premiata e remunerata con adeguatezza.
L'offrire contributi per migliorare la produzione, renderla più qualificata o efficiente o meno onerosa, individuare strumenti di risparmio o sviluppo, rendere più funzionale o confortevole l'ambiente di lavoro, più sicuro, procurano un vantaggio aziendale che spesso si può tradurre in un valore economico da cui l'operatore, se protagonista, non dovrebbe venire escluso.
Ci sarebbe la possibilità di gratificare il merito e di allargare le opportunità di guadagno del lavoratore, non più solo dipendente ma anche maggiormente coinvolto ed in parte addirittura autonomo.
Una retribuzione moderna, insomma, non solamente legata ai computi orari o numerici.
Certo non la soluzione di ogni problema, ma almeno un 'asset' retributivo più al passo con i tempi e forse adatto a figure professionali spesso di giovane età e con scolarità e competenze di tutto rispetto.
Per provocazione copio-incollo un testo di legge italiano, superato, ma che recitava così:

* "(...)Sugli utili netti, dopo le assegnazioni di legge alla riserva, e la costituzione di eventuali riserve speciali, che saranno stabilite dagli statuti e regolamenti, è ammessa una remunerazione al capitale investito nell’impresa in una misura massima fissata per i singoli settori produttivi dal Comitato ministeriale per la tutela del risparmio e l’esercizio del credito. (...)" "(...) Gli utili che residueranno dalle assegnazioni di cui all’articolo precedente verranno ripartiti tra i lavoratori: operai, impiegati tecnici amministrativi e dirigenti, in rapporto all’entità delle remunerazioni percepite nel corso dell’anno. Tale ripartizione non potrà comunque eccedere il 30% del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell’esercizio.(...)"

L'obbligo di redistribuire per legge una parte degli utili, suggestivo, ma ad ogni modo anacronistico.

A proposito, si tratta de:
* DECRETO LEGGE SULLA SOCIALIZZAZIONE DELLE IMPRESE (1944) - Repubblica Sociale Italiana (Fonte: ANPI Roma)

2 Comments:

Anonimo said...

Innanzitutto benvenuto su Wordpress, ottima scelta Ozzy!

Venendo all'articolo, mi sembra strano che nel XXI secolo ancora si contesti il guadagno dell'imprenditore (che rischia il suo capitale) e quanto poco guadagnino i suoi lavoratori (che hanno lo stipendio assicurato e possono offrirsi ad altre imprese)
Nei paesi anglosassoni ad esempio i redditi non sono una vergogna da nascondere e il successo di un'impresa è orgoglio nazionale.
Il lavoratore che non è soddisfatto della propria retribuzione cambia datore. Si dà da fare. Studia. Fà corsi. Si riqualifica.
Nel nord Italia la disoccupazione è tra le più basse al mondo e gli italiani lasciano agli extracomunitari i lavori sgraditi!
La contrattazione collettiva massificante è medioevo, oggi la retribuzione varia in funzione del talento, del valore, dei risultati: questo è il potere che il lavoratore può e deve esercitare.
Altro discorso secondo me riguarda i top manager, soprattutto pubblici e parastatali. Negli States stanno introducendo un tetto massimo ai loro stipendi: secondo me sarebbe opportuno farlo anche da noi
Giorgio

MARIN FALIERO said...

Fasìsta, anche di qua