lunedì 26 novembre 2007

SI CHIAMAVA DANIELE PALADINI

Ogni qualvolta un nostro militare perde la vita nella missione in Afghanistan si apre il dibattito sulla necessità o meno della nostra presenza in quel paese e la responsabilità per il lutto viene attribuita a pioggia ora su chi ha inviato le truppe, ora su chi non le ha ritirate.
Siamo inpegnati in una missione di peace-keeping o war-keeping?
Mi pare di capire che nella sostanza non cambia nulla, dobbiamo semplicemente decidere se vogliamo dare una mano a quella povera gente, che salta per aria all'inaugurazione di un ponte o di un ospedale, oppure quando si trova in fila per cercare un lavoro.
I Taliban c'erano anche prima che arrivassimo noi, solo che allora non avevano bisogno di indossare cinture col tritolo, facevano il bello e cattivo tempo senza avere problemi di sorta.
E le donne finivano giustiziate al campo di calcio, inginocchiate sul dischetto del rigore.
Non nego che sono orgoglioso di credere che i nostri militari stiano dando una mano, a costo della loro vita.
Solo mi urta che si discetti sulla natura dell'impegno, quasi ci fosse da tagliare velocemente la corda perchè i Taliban rimasti sono determinati a riprendere il controllo dell'Afghanistan con le armi.
Si chiamava Daniele Paladini, ed è già sparito dalle prime pagine dei giornali on-line

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